Il contesto arabo è molto complesso ed è difficile prevedere il come le cose si evolveranno; assistiamo da un lato all’emigrazione massiccia da questi paesi e dall’altra a un progressivo sfaldamento dei regimi militari, saliti al potere con la forza ed intenzionati a manovrare la propria successione, mantenendo strutture oligarchiche e familistiche, dove regnano la corruzione e i favoritismi.
Le rivoluzioni a cui stiamo assistendo sono frutto di una richiesta sempre più forte delle popolazioni di un governo democratico che soddisfi la sete di progresso economico e sociale.

TUNISIA
In Tunisia la “rivolta dei ciclamini” è scoppiata il 17 dicembre, quando Mohamed Bouaziz, un giovane laureato che si è dato fuoco per protestare contro la polizia comunale che gli aveva sequestrato la merce, morendo alcuni giorni dopo.

Le proteste contro la disoccupazione e le restrizioni politiche, benché represse dal regime, si diffondono rapidamente, l’ 11 gennaio la rivolta arriva nel cuore della capitale e tre giorni dopo il presidente Ben Ali, dopo aver promesso le riforme, fugge in Arabia Saudita.

Sarà Beji Caïd Essebsi, avvocato, ex ministro ai tempi di Bourguiba (ritenuto il padre dell’indipendenza tunisina e destituito da Ben Ali nel 1987) a formulare riforme e indire nuove elezioni.

ALGERIA

Ad Algheri il 4 gennaio è iniziata la protesta dopo gli ultimi aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari di largo consumo.

Anche la regione di Tizi Ouzou, che per storia e tradizione si presenta come la componente più radicale e indipendentista dell' Algeria, era in fiamme.

A frenare la rivolta è il ricordo della guerra civile degli anni novanta, che contò oltre 200.000 morti.

Bouteflika, eletto nel 1999 ha messo fine all'era del terrore e difeso, nell'interesse dell'oligarchia militare, una economia tendenzialmente chiusa. Il Paese è cresciuto (3,7%, mediamente, fra il 2001 e il 2009), ma non quanto era necessario per dare lavoro a una società in cui i giovani al di sotto dei trent'anni rappresentano il 75% della popolazione.

MAROCCO

Anche in Marocco migliaia di persone sono scese in piazza a Rabat, Casablanca, Tangeri e Agadir, per chiedere maggiori diritti civili e l'attuazione della riforma costituzionale promessa dal re Mohamed. La riforma prevede il riassetto del sistema giudiziario e il potenziamento del ruolo del parlamento e dei partiti politici. I manifestanti non chiedono l'abolizione della monarchia ma le dimissioni dei politici corrotti.

LIBIA

La crisi in Libia è iniziata il 15 febbraio a Bengasi, capitale della Cirenaica, regione da sempre contrapposta a Tripoli, roccaforte del potere.

Le divisioni tribali sono sempre state il punto di forza di Gheddafi, ma ora quei contrasti sono diventati un elemento di instabilità.

Warfala, Zintan, Rojahan, Orfella, Riaina, al Farjane, al Zuwayya, Tuareg sono le più importanti tribù, ma se ne contano oltre 140 a cui appartengono l’85% dei libici. 
Sono le tribù ad avere in mano le chiavi del potere: di giorno in giorno si muovono sulla scacchiera della guerra sostenendo gli insorti o dichiarandosi fedeli al rais, alleandosi o dissociandosi tra di loro non solo in ragione degli eventi presenti, ma anche sulla base di rivalità, faide o rancori passati e mai assopiti. Senza dimenticare le vie da cui passano denaro e petrolio.

In 1.500 miliardi di dollari sono valutati i fondi sovrani arabi, nati e cresciuti grazie al petrolio, fondi d’investimento governativi gestititi separatamente dalle riserve ufficiali in valuta. Data la loro gestione poco trasparente, non è possibile sapere con certezza dove siano stati investiti; si stima che in Europa siano investiti circa 600 miliardi: la quota libica ammonta a circa 64 miliardi.

2% la quota libica in Finmeccanica, la holding pubblica italiana che vanta tra le sue società alcuni dei principali produttori di armamenti al mondo;

7,58% la quota libica in UNICREDIT, una delle più grandi banche internazionali per giro d’affari e numero di clienti, con filiali in 22 paesi.

Poco meno di 300 milioni di Euro è una tassa del 4% sugli utili ante imposte che l’ENI dovrebbe versare al governo italiano e che è destinata a finanziare il Trattato di Amicizia sottoscritto nel 2008: esso prevede un risarcimento dei danni per le guerre coloniali da parte dell’Italia di 5 miliardi in 20 anni , in cambio di appalti, affidati a imprese italiane e ai capitali dell'ex colonia, che affluiscono in Piazza Affari per sostenere le nostre imprese.

117 milioni di euro in banconote libiche, stampate in Gran Bretagna e destinate a Gheddafi, erano su una nave diretta in Libia. I recenti eventi bellici l’hanno costretta a ritornare in Inghilterra dove il carico è stato confiscato. Una settimana prima è fallito il tentativo di esportare 900 milioni di sterline a causa delle recenti restrizioni imposte sulle esportazioni di denaro libico dalla Gran Bretagna. Il colonnello ha sempre più bisogno di fondi per pagare i fedelissimi al regime e per assumere mercenari.

EGITTO

L’invito a manifestare il 25 gennaio per la “giornata della rabbia”, lanciato dall’opposizione sia via internet che col passaparola, ha ottenuto la risposta di oltre 200 mila persone in tante città del paese.

Per la prima volta la tv di stato ha mostrato le proteste, pur censurando gli slogan e i cartelli contro il regime militare, che gode di cospicui stanziamenti finanziari nonché di totale indipendenza.

Siamo all’11 febbraio quando vengono annunciate ufficialmente le dimissioni del presidente Mubarak: la via delle riforme è aperta.

La borsa del Cairo è chiusa dal 30 gennaio, quando in soli due giorni di apertura l’indice di listino perse sull’onda del panico per le proteste anti-Mubarak il 20 per cento.

Oggi la borsa oltre che chiusa è anche blindata a causa degli scontri violenti fra i piccoli risparmiatori, spinti dai broker ad acquistare una quota maggiore di titoli con soldi concessi in prestito dagli stessi operatori, trattenendoli in garanzia ( il loro timore è che la perdita alla riapertura della borsa sia così elevata, da non riuscire a ripagare il debito) e i dipendenti delle società di brokeraggio che con la borsa chiusa da un mese e mezzo non guadagnano le commissioni sulle transazioni e alcuni nemmeno lo stipendio.

YEMEN

Il 18 marzo nello Yemen doveva essere il «Venerdì dell' avvertimento» convocato dall' opposizione che da mesi chiede le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh al potere da 32 anni. Si è concluso con un massacro: almeno 46 manifestanti sono stati uccisi ieri nella capitale Sanaa, circa 400 i feriti.
Sulla spinta delle pressioni popolari per le violenze degli scontri il presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh ha prima proclamato lo stato di emergenza e poi ha promesso riforme, dimezzato le tasse, diminuito il prezzo dei beni di prima necessità ed ora destituito l'intero esecutivo nazionale.

SIRIA

La Siria - dove il partito Baath è al potere dal 1963 dopo un colpo di stato, l' opposizione è al bando e vige una legislazione di emergenza - ha inasprito verso la fine di gennaio le già rigide restrizioni sul web, bloccando l' accesso Facebook sui cellulari.
Ma le proteste non si fermano: il 15 marzo , detta “giornata della collera” almeno 200 persone hanno manifestato a Damasco chiedendo riforme politiche e la liberazione di tutti i detenuti politici.

Proteste anche a Daleppo e Deraa.

Come gesto di distensione, il governo ha deciso la liberazione di 15 giovani, tutti sotto i 16 anni, il cui arresto aveva provocato l'esplodere delle proteste. I ragazzi erano stati fermati per aver scritto graffiti inneggianti alle rivolte tunisina ed egiziana sui muri della città.

BAHREIN

Da un mese in Bahrein la maggioranza sciita (circa il 70%) chiede al potere sunnita le stesse opportunità politiche ed economiche di cui gode la minoranza.

La metà della popolazione di questo stato è costituita da immigrati scelti accuratamente fra i sunniti per bilanciare la maggioranza sciita.

Gli scontri tra queste due parti sono stati sedati dall’intervento delle milizie saudite, che considerano pericoloso il contagio delle proteste e con l’immediata reazione degli iraniani che considerano l’”invasione inaccettabile” e minacciano nuove crisi regionali.

Il principe ereditario Salman Ben Hamad al-Khalifa, dopo la morte di sei manifestanti, uccisi dalla polizia a Manama, ha proposto l'apertura di un dialogo con l'opposizione.

SOMALIA
Un fenomeno inquietante sono i sequestri delle navi ad opera dei corsari somali sulle rette principali del greggio nell’oceano indiano. Davanti alle coste somale transita più del 40% d fabbisogno di greggio per l’intero pianeta e il numero delle navi sequestrate cresce a dismisura: si stima che i riscatti abbiano reso ai sequestratori solo nel 2010 circa un miliardo di dollari.

Una così alta resa vede rischi minimi, in quanto sono assai pochi gli abbordaggi sventati con scontri a fuoco e ferimenti o uccisione degli assalitori; per i catturati il rischio è per lo più di un processo pro-forma.

I costi indiretti (per assicurazione e noli in forte aumento, fermo nave, etc…) sono in crescita, ma praticare rotte alternative o che prevedano una navigazione d’alto bordo, anzichè quella attuale che rasenta le coste somale, determinerebbe comunque un aggravio consistente al costo del trasporto con il conseguente innalzamento del prezzo del greggio.

Da una parte l’utilizzo indisturbato dei pirati delle coste a sud, dall’altra una solida organizzazione di uomini e mezzi, dall’altra ancora l’influenza islamica: tutto fa pensare ad una guerra terroristica contro l’occidente, che ben coniuga la resa economica con l’atto contrario al nemico dell’islam.

La questione ormai pare risolvibile solo con mezzi militari di contrasto e soprattutto con un’azione coordinata e condivisa delle Nazioni Unite.