Da la Stampa.it

L’elio è il secondo elemento più abbondante nell’universo. Lo batte solo l’idrogeno. Entrambi si sono formati nei primi minuti dopo il Big Bang, 14 miliardi di anni fa. Tutte le stelle sono fatte di questi atomi primordiali, la ricetta è all’incirca 2/3 di idrogeno e un terzo di elio. Gli altri 90 elementi messi insieme costituiscono appena l’1% del cosmo. Eppure sulla Terra scarseggia. Lo si spreca per gonfiare mongolfiere ad uso turistico e pubblicitario, o palloncini colorati per le feste e i concerti rock. Applicazioni frivole ma redditizie. Peccato che poi manchi per tecnologie mediche come la magnetoencefalografia (Meg), nell’industria elettronica o nel gigantesco collider che al Cern di Ginevra ha stanato la «particella di Dio».  

Peter Wothers, professore di chimica a Cambridge, ha lanciato l’allarme, il quotidiano «Independent» gli ha fatto da cassa di risonanza. Per adesso l’elio si trova, sia pure a caro prezzo, ma fra 50 anni potrebbe diventare un problema grave. Già l’anno scorso – ricorda Mark Stokes, neuroscienziato del Centro per lo studio del cervello di Oxford – le università di Glasgow, Londra e Cambridge hanno incontrato difficoltà nel rifornire di questo gas i loro apparecchi per la Meg, usati, ad esempio, per diagnosticare l’epilessia. 

Conosciamo l’elio da meno di 150 anni. Lo scoprirono, ognuno per proprio conto, l’inglese Lockyer e il francese Janssen nel 1868 osservando il Sole durante un’eclisse totale. Pensarono che esistesse soltanto nelle stelle. Poi, nel 1895, si trovò nell’aria un gas con le stesse proprietà. Lo chiamarono elio, da Helios, Sole in greco. E’ un elemento leggero, il più leggero dopo l’idrogeno. Che però è infiammabilissimo, mentre l’elio non brucia perché è un gas nobile, non si lega chimicamente a nessun elemento. Quindi per evitare tragedie come l’incendio dell’«Hindenburg» (1937), per gonfiare dirigibili, palloni aerostatici e palloncini giocattolo si usa l’elio. Nell’atmosfera ce ne sono 5 parti per milione. E ce n’è sempre meno, perché, essendo leggero, sale nell’alta atmosfera e di là evade nello spazio. Basta che un suo atomo si scontri con un altro ricevendo una spinta verso l’esterno: se supera la velocità di fuga della Terra (11,2 km al secondo), addio elio. Per sempre. L’esigua scorta terrestre non è rinnovabile. 

E’ un guaio perché le proprietà fisiche di questo gas sono straordinarie. Raffreddato fino a 2,8 gradi sopra lo zero assoluto si comporta normalmente. Ma se scende sotto la soglia di 2,8 Kelvin diventa superfluido: conduce il calore 600 volte meglio del rame e acquisisce una viscosità mille volte inferiore a quella dell’idrogeno gassoso. Senza elio liquido non avremmo i sensori infrarossi sulle navicelle spaziali né le macchine di neuroimaging per vedere che succede nel cervello né i magneti superconduttori usati in fisica delle particelle. Lhc, il Large Hadron Collider del Cern, è un anello lungo 27 km formato da magneti raffreddati con 96 tonnellate di elio liquido. Trovarne tanto non è facile, eppure l’8% della produzione mondiale se ne va nei palloncini lanciati per fare allegria al Carnevale di Rio e ai party. 

Il Sole è una gigantesca fabbrica di elio. Come ogni stella, trae la sua energia dalla «fusione» di nuclei di idrogeno (protoni) in nuclei di elio. Sulla Terra si può estrarre una modesta quantità da composti gassosi dal sottosuolo: idrocarburi, emanazioni vulcaniche, soffioni boraciferi possono contenerne fino all’1%. Ma è poco rispetto alla domanda. Il Cern è il maggior singolo consumatore di elio del mondo. L’industria elettronica e la catena del super-freddo complessivamente ne richiedono ancora di più: per raffreddare i magneti nella produzione di semiconduttori dei cellulari, i sub lo mescolano a ossigeno e azoto per respiratori più sicuri, sempre per sicurezza si usa per lavare i serbatoi dei razzi a propellente liquido. Un isotopo, l’elio-3, sarebbe il combustibile ideale per le future centrali a fusione nucleare. Purtroppo sulla Terra è praticamente inesistente. Ce n’è però sulla Luna, ed è talmente prezioso che secondo l’astronauta-geologo Harrison Schmitt, l’ultimo che abbia calpestato il suolo del nostro satellite, sarebbe un affare andare lassù a prenderlo.